venerdì 21 giugno 2013

"Essere senza destino", Imre Kertész



A quindici anni Gyurka deve, in pochi giorni, salutare il padre, obbligato a partire per i lavori forzati, abbandonare il ginnasio per fare l'operaio alla Shell e poi partire a sua volta per la Germania. Siamo nella Budapest del 1944 e Gyurka è un ragazzo ebreo. Insieme ad altre tremila persone viene stipato su un treno, partendo volontariamente, con l'inganno di poter ricevere un posto privilegiato in una fabbrica di laterizi tedesca. Si ritrova invece ad Auschwitz. Grazie ad una bugia sulla propria età riesce a scampare ai forni crematoi ma inizia il suo calvario ai lavori forzati. Viene dapprima trasferito a Buchenwald e poi in un piccolo campo di lavoro di provincia, dove diventa vittima delle peggiori atrocità. Nella mente di Gyurka, che non si sente parte del popolo ebraico e che non riesce a trovare una consolazione nella preghiera come i suoi compagni di prigionia, continua a rimbalzare una domanda: si può davvero incolpare il destino delle proprie sciagure? Il ragazzo non riesce ad accettare l'idea di un destino prestabilito, in cui all'uomo non resta che accettare con sottomissione ogni accadimento. Gyurka sente il bisogno di credere di essere libero e, per questo motivo, non soggiogato ad una volontà superiore. 
Sebbene spogliato della propria umanità e dignità, il ragazzo non riesce a rinunciare alla vita e, un passo dopo l'altro, affronta il campo di concentramento. Con i suoi occhi di ragazzino comincia a scorgere il lato positivo e umano di un'esperienza tanto devastante quanto quella del lager e della prigionia.
Imre Kertész sfrutta la figura di Gyurka per raccontarci la sua esperienza nel cuore dell'olocausto. Come moltissimi altri racconti sui campi di concentramento, anche in quest'opera (rimasta per lungo tempo senza un editore in Ungheria e poi messa al bando, ma che è valsa al suo autore il Premio Nobel per la letteratura nel 2002) ritroviamo le descrizioni impressionanti delle barbarie, delle sofferenze disumane dei prigionieri, ma il tutto viene filtrato dallo sguardo ingenuo e limpido di un adolescente. Ciò che invece differenzia "Essere senza destino" da altre opere sull'olocausto è probabilmente la volontà di Kertész di parlare della felicità, di quei piccoli momenti di gioia che l'essere umano si ostina a voler provare anche nelle situazioni più drammatiche, lampi di luce nelle tenebre, guizzi di voglia di vivere in mezzo all'orrore. Perché l'uomo è fatto per vivere e, anche inconsciamente, tende a questo desiderio di sopravvivenza anche quando ogni speranza sembra vana. Kertész, per bocca di Gyurka, dice che non vuole dimenticare l'orrore, come se fosse stato un errore, una casualità, ma lo vuole ancorare a qualcosa di utile e costruttivo. 
Un romanzo pesante come un macigno ma pieno di speranza. 

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