mercoledì 26 giugno 2013

"Belli e dannati" Francis Scott Fitzgerald


Anthony Patch sembra essere destinato a una vita dorata: neolaureato ad Harvard, dove è stato studente modello, giovane e pieno di vita, ma soprattutto destinato ad ereditare un’immensa fortuna dal nonno paterno, il moralista e trombone industriale Adam Patch. Ma ad alcuni anni dalla laurea ancora il suo progetto di scrivere un saggio sul Medioevo non ha preso piede e, anzi, ha cominciato a dedicarsi alla dolce vita di ozi, feste e divertimenti che New York gli può offrire, insieme ai suoi fidati amici, Maury Noble e Richard Caramel. Proprio quest’ultimo gli presenta la sua bellissima e frivola cugina, Gloria. Tra i due nasce un amore eccessivo e distruttivo. Dopo un avventato matrimonio, Anthony comincia a scoprire nella bellissima moglie una serie di asprezze caratteriali che rendono la loro convivenza un vero e proprio inferno, e Gloria stessa comincia a detestare le paure, le insicurezze e la continua autocommiserazione del marito. Infatti Anthony non ha alcuna intenzione di trovare un lavoro e lentamente erode la rendita che gli è stata affidata dal nonno, aspettando con impazienza che questo passi a miglior vita per poter ereditare la sua fortuna. Eppure non smette di sentirsi in colpa e di fingere di voler occuparsi di qualcosa. Prova dapprima nel mondo della finanza, ma presto si accorge di esserne poco propenso, poi tenta di scrivere racconti, con scarso successo. Al contempo la relazione con Gloria diventa tanto asfissiante da spingerli entrambi a riempire il vuoto del loro matrimonio con feste, amici, spese folli e soprattutto alcol. Comincia un lento declino verso la dannazione e i vizi, che ha come apice l’essere diseredati dal vecchio Adam Patch. Eppure, seppur rendendosi reciprocamente la vita impossibile, i due continuano a rimanere uniti, in un morboso decadimento verso la rovina. 
“Belli e dannati” è un romanzo sul decadimento e l’ascesa. Il decadimento è ovviamente quello di Anthony e di Gloria che, a causa della loro inettitudine e inerzia, vengono lentamenti affossati dalle loro stesse scelte (o non scelte) di vita. Gloria viva nella vanagloriosa sicurezza della propria bellezza e più di una volta dichiara di voler vivere un’esistenza piena di piaceri e senza responsabilità o preoccupazioni, una vita in cui non ci sia alcuna lezione da imparare. Anthony, pur tendando di addossare tutte le colpe della propria sventura alla moglie, non fa che darsi delle scuse e che nascondersi dietro le sue pretese da intellettuale, disprezzando il lavoro, la classe media newyorkese, il lavoro di scrittore “commerciale” del suo amico Caramel. Ma ben presto lo stile di vita al quale si è abituato lo fa scendere, di gradino in gradino, nella scala sociale a cui lui credeva di essere saldamente ancorato. Non è più l’aristocrazia morale a governare il loro status ma il loro denaro, che scarseggia e li spinge a mescolarsi coi tanto detestati ceti medio-bassi. E allo stesso tempo però c’è anche l’ascesa di un personaggio che compare ad intermittenza nel romanzo, ma sempre nei momenti topici: Joseph Bloeckman. Questi è un rozzo ma ricco ebreo newyorkese che si occupa di cinema. È un corteggiatore di Gloria ma viene surclassato dal più raffinato Anthony. Eppure, lungo la storia, ad ogni loro incontro, Bloeckman appare maggiormente raffinato (sia fisicamente che moralmente), mentre il declino di Patch è sempre più evidente. Quella che descrive Scott Fitzgerald è la rivincita del sogno americano degli immigrati volenterosi, rispetto alle esistenze dorate dei rampolli della high society americana.
“Belli e dannati” è stato pubblicato nel marzo del 1922 a neppure due anni dal matrimonio di Scott Fitzgerald con la bella ed eccentrica Zelda Sayre. La loro coppia ha molto in comune con Anthony Patch e Gloria (per loro stessa ammissione, molto del romanzo fu ispirato dalla loro vita domestica), eppure ha anche qualcosa di profetico. Il decadimento, l’alcolismo, le liti e le gelosie, la vita eccessiva sempre condotta al di sopra dei loro mezzi, non erano che all’inizio. Il primo vero cedimento la coppia, una delle più celebri della letteratura, oltre che la più rappresentativa del contesto culturale degli anni Venti del Novecento, avvenne solo alcuni anni dopo, con il tradimento perpetrato da Zelda, il suo tentativo di suicidio e il suo ricovero in clinica per schizofrenia. Eppure i due non riuscirono mai del tutto a tagliare quei legami così forti che li avevano uniti, e il loro rapporto continuò a influenzare l’opera di lui (“Tenera è la notte”). 
È un libro intenso e ricco in cui tutti gli elementi della poetica di Scott Fitzgerald compaiono: il jazz, il cinema, la vita dissoluta e dorata delle classi agiate americane, l’illusione e la menzogna dell’età del Jazz. La cosa curiosa è che questo è il terzo romanzo di Fitzgerald che leggo (dopo “Il grande Gatsby” e “Tenera è la notte”): ho adorato tutti e tre con tutta me stessa (forse “Belli e dannati” è quello meno riuscito, a mio parere personale) ma ho detestato, con più o meno foga, ognuno dei personaggi descritti. Scott Fitzgerald è riuscito proprio per questo a lasciare il segno nella letteratura americana: creare una serie di personaggi terribilmente antipatici, che il lettore non può smettere di biasimare ma che non dimenticherà mai più (Anthony Patch però, per amor del vero, non riesce a surclassare l’odiosa Daisy Buchanan, detentrice assoluta della palma di antipatica per antonomasia).

venerdì 21 giugno 2013

"Essere senza destino", Imre Kertész



A quindici anni Gyurka deve, in pochi giorni, salutare il padre, obbligato a partire per i lavori forzati, abbandonare il ginnasio per fare l'operaio alla Shell e poi partire a sua volta per la Germania. Siamo nella Budapest del 1944 e Gyurka è un ragazzo ebreo. Insieme ad altre tremila persone viene stipato su un treno, partendo volontariamente, con l'inganno di poter ricevere un posto privilegiato in una fabbrica di laterizi tedesca. Si ritrova invece ad Auschwitz. Grazie ad una bugia sulla propria età riesce a scampare ai forni crematoi ma inizia il suo calvario ai lavori forzati. Viene dapprima trasferito a Buchenwald e poi in un piccolo campo di lavoro di provincia, dove diventa vittima delle peggiori atrocità. Nella mente di Gyurka, che non si sente parte del popolo ebraico e che non riesce a trovare una consolazione nella preghiera come i suoi compagni di prigionia, continua a rimbalzare una domanda: si può davvero incolpare il destino delle proprie sciagure? Il ragazzo non riesce ad accettare l'idea di un destino prestabilito, in cui all'uomo non resta che accettare con sottomissione ogni accadimento. Gyurka sente il bisogno di credere di essere libero e, per questo motivo, non soggiogato ad una volontà superiore. 
Sebbene spogliato della propria umanità e dignità, il ragazzo non riesce a rinunciare alla vita e, un passo dopo l'altro, affronta il campo di concentramento. Con i suoi occhi di ragazzino comincia a scorgere il lato positivo e umano di un'esperienza tanto devastante quanto quella del lager e della prigionia.
Imre Kertész sfrutta la figura di Gyurka per raccontarci la sua esperienza nel cuore dell'olocausto. Come moltissimi altri racconti sui campi di concentramento, anche in quest'opera (rimasta per lungo tempo senza un editore in Ungheria e poi messa al bando, ma che è valsa al suo autore il Premio Nobel per la letteratura nel 2002) ritroviamo le descrizioni impressionanti delle barbarie, delle sofferenze disumane dei prigionieri, ma il tutto viene filtrato dallo sguardo ingenuo e limpido di un adolescente. Ciò che invece differenzia "Essere senza destino" da altre opere sull'olocausto è probabilmente la volontà di Kertész di parlare della felicità, di quei piccoli momenti di gioia che l'essere umano si ostina a voler provare anche nelle situazioni più drammatiche, lampi di luce nelle tenebre, guizzi di voglia di vivere in mezzo all'orrore. Perché l'uomo è fatto per vivere e, anche inconsciamente, tende a questo desiderio di sopravvivenza anche quando ogni speranza sembra vana. Kertész, per bocca di Gyurka, dice che non vuole dimenticare l'orrore, come se fosse stato un errore, una casualità, ma lo vuole ancorare a qualcosa di utile e costruttivo. 
Un romanzo pesante come un macigno ma pieno di speranza. 

giovedì 13 giugno 2013

"Camera oscura", Simonetta Agnello Hornby


Chi era davvero Charles L. Dodgson, meglio conosciuto con il suo pseudonimo di scrittore, Lewis Carroll? Simonetta Agnello Hornby parte dalla fittissima corrispondenza di questo controverso artista per risalire, attraverso l’espediente letterario della bella (e immaginaria) Ruth, ormai trentenne, che torna a Oxford e tenta di fare luce sul proprio rapporto di bambina con colui che chiamava Zio e che improvvisamente l’aveva abbandonata. Un rapporto fatto di pomeriggi nel suo studio fotografico, ad essere baciata, sfiorata, imbonita da infinite e straordinarie favole, nell’attesa degli scatti studiatissimi del suo mentore. Dodgson, infatti, amava immortalare le numerose “amichette” (bambine generalmente tra i 4 e 14 anni) senza veli, col tacito consenso di genitori desiderosi di assecondare l’ormai famoso scrittore e i propri capricci. Ma chi era veramente? Un pedofilo? Un benefattore? Un eccentrico artista? Simonetta Agnello Hornby lascia al lettore l’ardua sentenza. A leggere oggi di certe pratiche, per quanto mai spinte oltre il limite della legge (per lo meno a quanto sia rimasto documentato, sia dallo stesso scrittore che dalle giovanissime modelle che lo circondarono in vita, compresa la famosa Alice Liddell, sua musa nella stesura del celeberrimo “Alice nel paese delle meraviglie”) e sempre col consenso dei genitori, a me personalmente si è accapponata la pelle. Vezzeggiare bambine in età prepuberale, ricoprirle di baci, carezze e attenzioni come se fossero giovani adulte, per poi ritrarle nude in pose più o meno conturbanti è ben oltre il limite del lecito, almeno oggi giorno. Fa sorridere che anche i genitori delle fanciulle non se ne avvedessero e che invece fossero ben lieti di prestare le loro figlie a certe pratiche, per vanità e per fama. Il ritratto che emerge dalle pagine di “Camera oscura” è quello di un uomo che, soprattutto in età avanzata, non riesce più a discernere tra le sue due anime: il Charles L. Dodgson, professore di matematica timido e balbuziente che passa notti insonni, roso dai pensieri peccaminosi e dai sensi di colpa, e Lewis Carroll, fascinoso e affabulatore, che parla come i personaggi dei suoi libri e gioca con bambine come se fosse un loro coetaneo. Il libro fa emergere questo costante dualismo, questa esistenza da Dr Jeckyl e Mr Hyde, tra opere di carità per istituti dediti alla difesa dei minori maltrattati e l’ossessione per il corpo delle bambine.
Un bel libro ma forse un po’ corto, soprattutto la storia di Ruth sul finale viene liquidata con un po’ di faciloneria. Molto interessanti invece le traduzioni delle lettere di Dodgson ai parenti delle sue amichette, in cui emerge tutta la sua capacità di circuire adulti e bambini.

domenica 9 giugno 2013

"Ferite a morte", Serena Dandini


Avevo scritto questa recensione alcune settimane fa, prima della ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne, siglata ad Istanbul nel maggio 2011 (testo integrale qui), prima che l’ennesima donna fosse ammazzata per mano dell’uomo che amava. Per questo prima della recensione vorrei esprimere alcuni concetti che mi stanno molto a cuore. Il delitto di Fabiana, la ragazza di sedici anni uccisa dal proprio fidanzatino, appena un anno più grande di lei, e poi bruciata, mentre era ancora viva, rimarrà nelle coscienze di molti di noi per molto tempo, probabilmente. Non solo per la giovane età dei protagonisti (quindi anche le nuove generazioni sono cresciute con la cultura del maschio violento e possessore della propria donna? Non si tratta di un concetto arretrato, più da generazione dei nostri padri?), ma anche per la violenza efferata e la freddezza con cui questo femminicidio è stato eseguito. Per le dichiarazioni dell’assassino, per quelle della madre, per l’immagine di una ragazza ferita che lotta per togliere dalle mani del proprio amore-carnefice la tanica di benzina che la brucerà. E poi le numerose, ennesime gaffe dei media, ancora incapaci di trovare le giuste parole per descrivere la violenza che si discostino nettamente dal tipico linguaggio patriarcale, che tende a giustificare in qualche modo subdolo il gesto dell’uomo, ferito, passionale, colto da un raptus (come se un raptus potesse durare un numero infinito di coltellate e il tempo di trovare della benzina e di lottare con la propria donna per poterla finalmente ammazzare). E poi la desolante immagine della Camera dei Deputati vuota durante la discussione del voto per la ratifica del trattato di Istanbul (solo marginalmente mitigata dal voto unanime del giorno seguente), in un momento in cui la violenza sulle donne è una vera e propria emergenza. Ed infine le vacue diatribe tra noi donne, che invece di lottare compatte contro la violenza che quasi ogni giorno conduce alla tomba una di noi, ci mettiamo a discutere di quale donna sia degna di parlare di femminicidio e quale no, tiriamo in ballo l’orgoglio geografico prima dell’orgoglio di essere donne, continuando così in parte a nascondere, omertosamente, certe verità. Che speranza c’è per questo Paese dilaniato dal problema della condizione femminile? La comunicazione, credo. L’educazione, ne sono certa. Educare le donne a non credere nell’amore malato di chi alza le mani (vedi il caso della miss con la milza spappolata che “perdona” il fidanzato), e anche gli uomini, nella consapevolezza del rispetto per la donna, della parità dei generi e dell’assurdità dell’uso della violenza. Questo libro può avere un ruolo in questo processo di presa di coscienza, soprattutto in un momento del genere. Non vogliamo più sentire storie come quella di Corigliano. Buona lettura della recensione.

“Premetto che sono una convinta femminista e che ho molto a cuore la questione del femminicidio. Se vi urtano certi temi, lasciate perdere questa recensione e questo libro. “Ferite a morte” è nato nel 2012 come un progetto teatrale, firmato da Serena Dandini. La scena è scarna e l’attenzione solo focalizzata sulle donne che si alternano sul palco, con le loro storie. Lo scopo era quello di porre l’attenzione sul fenomeno che ogni due o tre giorni colpisce una donna italiana; il cosiddetto “femminicidio”. Perché purtroppo anche in un paese considerato civile come il nostro, ogni anno centinaia di donne muoiono per mano di mariti, fratelli, fidanzati o ex. E qual è il movente? L’essere donna e non essere (nella maggior parte dei casi) un oggetto di proprietà. Per non parlare di tutte coloro che non arrivano alla morte ma semplicemente ricevono la loro dose di botte e umiliazioni quotidiane. È la cultura del rispetto della donna che deve essere modificata e la Dandini cerca di dare un contributo con uno spettacolo teatrale che poi è stato trasposto in questo libretto. Nella prima parte sono riportati i testi dello spettacolo: monologhi di donne ormai morte e ospitate in un ipotetico paradiso delle vittime di femminicidio. Ci sono tutte: la casalinga ammazzata a pugni da un marito brutale, le cronache di morti annunciate per mano di fidanzati ed ex fidanzati violenti, le bambine vittime delle gravidanze selettive nell’est, le donne scomparse e seviziate a Ciudad Juárez, le donne lapidate in Medioriente, le ragazze stuprate e uccise mentre fanno jogging in un parco. Leggendo queste pagine non potrete non pensare a una serie infinita di casi di cronaca di tutti i giorni. Anche se i nomi spesso non sono riportati, è facile riconoscere quei volti e quelle storie che entrano ogni giorno nelle nostre vite, attraverso i telegiornali (quando va bene), i rotocalchi, i plastici delle case degli orrori nei programmi in seconda serata. Un giro del mondo che ci mostra come, pur cambiando gli scenari e i mezzi, ovunque le donne sono ancora vittime di violenza e ingiustizie per il solo motivo di essere donne. Una situazione che è intollerabile e che va superata, ma come? La denuncia, l’informazione e leggi ad hoc possono essere la risposta e Serena Dandini ci illumina, nella seconda parte del libro, con informazioni sulle varie forme di violenza trattate nei suoi monologhi. Numeri spesso impressionanti, ma che fanno capire la portata del problema. Per maggiori informazioni sul progetto visitate www.feriteamorte.it mentre per firmare la petizione della Dandini su Change.org (per chiedere al parlamento e al governo italiano di convocare subito gli stati generali contro la violenza) potete cliccare qui.
So che spesso non ci rendiamo conto e siamo noi donne le prime ad adattarci a certi comportamenti, dati per normali, degli uomini della nostra vita. Ma leggere questi monologhi, così veri, così drammatici ma raccontati con un linguaggio leggero e spesso comico, è davvero straziante. Una lettura che davvero consiglio sia alle donne (per prendere un po’ di coscienza sulle varie sfumature che la violenza può assumere) ma anche agli uomini, che spesso non si rendono conto della gravità del fenomeno e hanno difficoltà a capire la differenza tra omicidio e femminicidio (anche gli uomini migliori, istruiti, educati e che non farebbero mai il minimo male alla propria compagna).”