martedì 19 marzo 2013

"Il mare non bagna Napoli", Anna Maria Ortese


Non avevo mai letto Anna Maria Ortese e un mio carissimo amico (grazie Luca!) me l’ha fatta scoprire con un regalo speciale. Prima della mia partenza mi ha regalato “Il mare non bagna Napoli”, dicendosi certo che l’avrei apprezzato. Non si era sbagliato. Fin dal primo racconto la voce schietta, spesso ruvida della Ortese, mi ha catapultata dalla grigia Inghilterra alla città di Napoli. Però quello che la scrittrice ci offre in questa raccolta di racconti, non è il solito ritratto della bella perla del sud, del suo folklore, del sole e del mare, della sua popolazione spensierata e allegra. La Ortese senza pietà alcuna ci porta nelle viscere più segrete della Napoli del dopoguerra, negli inferi di una città che non sembra vivere ma trascinarsi, come un’enorme bestia morente che arranca in una palude. In “Un paio di occhiali” Eugenia, di otto anni, è cresciuta nella nebbia della sua miopia e da essa è stata sempre protetta, come da uno scudo, contro le brutture del mondo. In “Interno familiare” Anastasia è costretta a scegliere tra la propria famiglia, per cui lavora come schiava e dalla quale viene caricata di responsabilità, fino a sentirsene oppressa, e la propria segreta e insperata felicità personale. Con “Oro a Forcella” la Ortese ci conduce nei banchi dei pegni dei quartieri popolari, dove le donne si recano per impegnare i loro miseri gioielli e preziosi in cambio di quel poco che basta per far campare la famiglia. Ne “La città involontaria” invece giungiamo negli inferi di una città morente e priva di speranze. Il degrado e la miseria trasformano gli esseri umani in larve, in ombre malate e denutrite, che sopravvivono nella loro stessa putrefazione. Ed infine con “Il silenzio della ragione” la Ortese passa a criticare aspramente il contesto culturale della città, ed in primis gli intellettuali e gli scrittori di punta del suo tempo. Un racconto che probabilmente non a caso chiude il libro, quasi come a dire che in fondo dietro a tanto degrado e decadenza vi sia una spiegazione non solo politico-economica ma anche un assopimento di quelle che sono state le grandi menti della Napoli anni Cinquanta e più in generale del suo fervore culturale.
A causa di questa opera la Ortese è stata accusata di odio nei confronti di Napoli e, anche per questo motivo, negli anni seguenti all’uscita dell’opera (1953) abbandonò del tutto la sua città. La mia impressione di lettrice non è stata quella di leggere odio tra le righe. In ogni parola, per quanto pietosa e per quanto dura, al più coglievo disperazione, sconforto, voglia di riscatto. Il fatto stesso che le storie vedano protagoniste donne coraggiose, che vivono ogni giorno come una lotta dura a cui non si sottraggono, accende un barlume di speranza anche nelle tenebre delle peggiori condizioni umane. Forse sì, si tratta di una discesa verso gli inferi, ma nei gironi danteschi napoletani, qualcosa di vivo e palpitante in fondo sembra rimanere: il coraggio delle donne, madri, mogli, sorelle, che si fanno carico delle vite dei loro cari, cercando di traghettarle in acque migliori. Una bella pagina della letteratura italiana.

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