lunedì 30 dicembre 2013

"Letture Precarie" Awards 2013

Il 2013 sta finendo ed è tempo di bilanci e di auguri. Quest'anno ho deciso di tirare le somme e riassumere un po' i 365 giorni di lettura che ho trascorso in vostra compagnia. Ecco qui i "Letture Precarie" Awards 2013.

Migliori Letture Precarie

Quest'anno ho letto molto e bene. Cerco sempre di scegliere con cura un romanzo prima di cominciarlo e per questo motivo spesso i miei post sono parecchio positivi. Ho letto davvero degli splendidi libri ed è difficile dire quale sia la miglior lettura. Ne ho scelte 5 (in ordine casuale):


Le vostre Letture Precarie preferite del 2013


Best Italian Act


Miglior novità


Miglior "mattone"


Migliore raccolta di racconti


Migliori citazioni

Un giorno questo dolore ti sarà utile ("A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono, un dono crudele, ma pur sempre un dono.")

La pioggia prima che cada ("“A me piace la pioggia prima che cada”. [...] “Sai, Thea, non esiste una cosa come la pioggia prima che cada. Deve cadere, altrimenti non è pioggia”. [...] “Certo che non esiste una cosa così,” disse. “É proprio per questo che è la mia preferita. Qualcosa può ben farti felice, no? Anche se non è reale.”")

Pastorale Americana ("...Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati.")

Premio speciale "Piangere come una fontana"


Vi auguro buon anno, sperando che questo piccolo blog possa continuare a tenervi compagnia e a darvi qualche buon consiglio di lettura nel 2014.

sabato 14 dicembre 2013

"Tre volte all'alba", Alessandro Baricco

"Tre volte all'alba" è un piccolo romanzo composto da tre racconti che hanno per protagonisti un uomo, una donna e un albergo. Sono racconti che sfidano le leggi spazio temporali: l'uomo e la donna potrebbero essere le stesse persone in tutti e tre i racconti, ma hanno età e passati differenti. Il filo conduttore della storia è l'incontro di due persone diverse e sole, che si aprono l'un l'altra spinte da un inesplicabile fiducia. Gli incontri-scontri avvengono sempre in un albergo (che potrebbe essere lo stesso, oppure no) e sempre all'alba. Il sole che sorge coglie questi incontri e in parte distrugge l'aura di sogno che li circonda, riportando alla realtà i protagonisti. 
"Tre volte all'alba" è un romanzo breve e che si legge d'un fiato. La curiosità è che si tratta di una sorta di spin off di "Mr Gwin" (qui la recensione di "Letture Precarie"). Alla fine del romanzo infatti Mr Gwin pubblicava, con lo pseudonimo di Akash Narayan, un romanzo, appunto intitolato "Tre volte all'alba", in cui compariva il ritratto della sua assistente Rebecca. Baricco dopo la stesura della storia di Jasper Gwin si è dilettato nello scrivere anche il libro di fantasia menzionato. Se non avete mai letto "Mr Gwin" non preoccupatevi, è una storia del tutto indipendente. Ma potete anche fare le cose come si deve, visto che col Natale alle porte avrete più tempo per leggere, e comprarli entrambi

venerdì 6 dicembre 2013

"L'amica geniale", Elena Ferrante

In un rione povero alla periferia della Napoli anni Cinquanta, nasce l’amicizia tra due bambine, Elena Greco, detta Lenù, e Raffaella Cerrullo, detta Lila. Le due vivono nello stesso cortile e frequentano la stessa classe delle scuole elementari, ma a causa del carattere scorbutico di Lila e dei suoi atteggiamenti violenti, Elena, seppur affascinata, la teme e le sta a distanza. Le due cominciano a sfidarsi silenziosamente con una serie di prove di coraggio. Prima Lila, spavalda, entra in uno scantinato buio, si punge con una spilla arrugginita, si aggrappa e poi si lancia dalle inferriate del palazzo, e subito dietro Elena, per dimostrare lo stesso coraggio e determinazione della sua coetanea. Un giorno Lila comincia a salire le scale dell’appartamento di Don Achille, ricco salumiere che tutti nel rione temono ed evitano. Per le scale per la prima volta Lila sembra perdere coraggio e prende per mano Elena. Da allora le due diventano inseparabili. Il loro controverso rapporto (fatto di amore incondizionato ma anche di tanta gelosia e competitività) le accompagna dall’infanzia all’adolescenza, proteggendole dalla violenza e dal degrado del rione. Ciò che unisce le due, oltre all’amore per i libri, è la volontà di emanciparsi dal quartiere dove sono nate. Elena persegue questo proposito attraverso lo studio, frequentando con grande successo il liceo classico, Lila invece, che ha smesso di studiare dopo la licenza elementare per via del rifiuto dei suoi genitori, continua a lottare per “uscire” dal rione prima attraverso i libri della biblioteca, poi focalizzando i propri obiettivi sulla ricchezza. Le persone ricche, infatti, possono governare l’intero quartiere, possono dettare legge, spesso con violenza e brutalità. Lila ed Elena sembrano aver imboccato strade del tutto diverse e inconciliabili, eppure la loro amicizia ritorna, nei momenti di maggior bisogno, per diventare sostegno e ragion d’essere.
Non ho una grande passione per la letteratura italiana contemporanea, specialmente i romanzi scritti da donne mi lasciano sempre un po’ interdetta. La sensazione che mi rimane addosso è quella di leggere la versione cartacea di un film di Gabriele Muccino: un’accozzaglia di gente disperata e isterica, che urla e strilla senza apparente motivo e che non riesce ad avere un rapporto sano con nessun altro essere umano. Mi danno l’impressione di essere drammoni tragici per puro amore della tragedia, pesanti fino a sembrare a volte poco verosimili. Ho letto su un sito di cui mi fido parecchio (Finzioni, per chi non lo conoscesse), che l’ultimo libro di Elena Ferrante “Storia di chi fugge e di chi resta” era caldamente consigliato e, seppur sia parte della trilogia de “L’amica geniale”, lo si poteva leggere tranquillamente a parte, come romanzo a sé. Sapere di un libro che conclude una trilogia e non partire dal primo volume mi sembrava un assurdo, e così mi sono decisa ad acquistare, con curiosità, “L’amica geniale”. Innanzitutto, e questo mi ha incuriosita ulteriormente, ho scoperto che si tratta di una scrittrice piuttosto misteriosa: nessuno conosce nulla di lei, potrebbe essere lo pseudonimo addirittura di uno scrittore uomo, e le poche congetture che si sono fatte sulla sua vita, sono ispirate dai suoi romanzi, supponendo che partano da una ispirazione autobiografica.
Partiamo subito col dire che sono rimasta piacevolmente colpita perché di “mucciniano” c’è ben poco. Il suo stile semplice e scarno, la storia che trasuda verità, l’attenzione per i poveri e i disadattati, la descrizione della vita di quartieri che diventano piccole comunità autonome e tristemente isolate, mi hanno ricordato (forse anche per l’ambientazione post-bellica) in qualche modo Vasco Pratolini (opinione personale del tutto contestabile, ma tant’è). Si tratta di un romanzo ben architettato e ben scritto che racchiude una complessità di personaggi (Lila in particolare è una ragazza assolutamente unica e a tratti inquietante a causa della sua intelligenza straordinaria e della sua mancanza di scrupoli) ben mescolata con la generale semplicità dello stile e dell’ambiente in cui la storia si svolge. Questo aiuta il lettore a entrare davvero nel rione e a mescolarsi con la sua gente, con quella che Elena stessa definirà la “plebe” di Napoli.
Un romanzo di formazione bello e coinvolgente che spinge il lettore a procurarsi gli altri libri della serie (oltre a “Storia di chi fugge e di chi resta”, “Storia del nuovo cognome”). Una bella scoperta di fine anno. 

venerdì 29 novembre 2013

“La bellezza delle cose fragili”, Taiye Selasi

Kweku Sai muore solo, nel giardino della splendida casa che ha costruito nella sua terra di origine, il Ghana, guardando una farfalla volargli accanto e ascoltando gli uccelli cantare. La sua morte è resa lenta dal flusso dei suoi ricordi, che corrono lontani, fino a Fola, la donna che ha amato e con cui ha avuto quattro figli, lontano, negli Stati Uniti. Kweku ripensa alla sua infanzia, in una piccola capanna di fango in Africa, e alla sua rivalsa, la borsa di studio che lo ha portato  a Boston, dove è diventato un chirurgo di successo. Ma la vita che gli sta scivolando via tra le dita è stata segnata da una colpa incancellabile: la vergogna per una sconfitta professionale lo ha spinto a lasciare Fola e i bambini, senza una parola, senza una spiegazione, e a tornare in Ghana. Mentre Kweku muore solo nell’erba coperta di rugiada, Fola, che a sua volta è ritornata in Africa, si sveglia d’improvviso, assalita dalla sensazione che qualcosa di terribile sia accaduto. Nonostante siano passati anni, il suo invisibile legame con l’ex marito è ancora forte e saldo, nonostante le ferite che le ha inferto. La notizia della morte improvvisa di Kweku attraversa l’oceano e arriva ai suoi figli, ormai cresciuti e carichi di problemi personali. Olu, il maggiore, è terrorizzato dall’amore. Ha una moglie, Ling, ma non riesce a considerarla la propria famiglia. Troppo spaventato dall’idea di poterne perdere l’amore o di commettere gli errori di suo padre, vive una vita asettica, algida, priva di sentimento. Kehinde e Taiwo sono due gemelli uniti da un drammatico e sconcertante segreto. Kehinde è un artista affermato, ha tentato il suicidio e ha tagliato tutti i rapporti con il resto della sua famiglia, ma soprattutto con la sua gemella. Taiwo è stata coinvolta in uno scandalo, diventando l’amante di un suo professore universitario. Infine c’è Sadie, la piccola della famiglia, che odia il suo corpo, si sente oppressa dal legame morboso che Fola ha instaurato con lei dopo l’abbandono di Kweku, e si sente inferiore in tutto rispetto ai suoi fratelli maggiori, considerati belli, talentuosi, intelligenti e brillanti. La famiglia Sai non ha un baricentro, non ha unità. È un insieme di persone che portano rancore le une verso le altre, e che vivono sparpagliate per il mondo senza sentirsi più legate da alcun vincolo affettivo. Appena venuto a conoscenza della morte del padre, Olu organizza il viaggio che lo riporterà, coi suoi fratelli e con Ling, nella terra da cui i loro genitori sono venuti. Questo viaggio nel cuore delle proprie radici, per piangere un padre che è un mero ricordo per molti di loro, diventa occasione per affrontare i propri demoni e i fantasmi del passato.
Taiye Selasi è una giovane scrittrice di origine Africana che ben rappresenta la nuova generazione dei così detti “Afropolitan”: è per metà nigeriana e per metà ghaniana, è nata a Londra, ha studiato a Oxford e Yale, vive e lavora tra Roma e gli Stati Uniti. Proprio il suo saggio del 2005 “What is an Afropolitan?”, ha dato un volto a questi nuovi africani, colti, sofisticati, provenienti dalle migliori università e cittadini del mondo, a dispetto di tutti i pregiudizi e i luoghi comuni. “Afropolitan” è anche il termine migliore per descrivere questo romanzo (in inglese intitolato “Ghana must go”, la frase che i nigeriani rivolgevano ai rifugiati politici ghaniani negli anni ‘80), che affonda le sue radici in Africa, ma che è germogliato in Occidente, come i suoi personaggi principali e come la sua autrice. Questo esordio straordinario è divenuto immediatamente un caso editoriale ed ha ricevuto la benedizione di Salman Rushdie. Taiye Selasi scrive con una grazia e una delicatezza uniche, con una dovizia di particolari sorprendente. Pagine e pagine sono dedicate alla descrizione minuziosa di corpi, di sentimenti, di paesaggi, che ci vengono non raccontati ma dipinti. I personaggi di questo libro, e la loro sofferta evoluzione, sono profondi e dolorosi. Si piange molto leggendo “La bellezza delle cose fragili” perché questa scrittrice sa arrivare dritta al cuore dei suoi personaggi, e quindi dei suoi lettori. La famiglia Sai vive nella contraddizione, infatti è devastata dalla perdita dell’amore ma allo stesso tempo tenta di fuggire dall’amore stesso, che li soffoca e li opprime silenziosamente, spingendoli ad allontanarsi gli uni dagli altri.

Un bellissimo e commovente romanzo, delicato e duro allo stesso tempo, una voce nuova e promettente, da tenere d’occhio. 

lunedì 11 novembre 2013

"Chi ti credi di essere?", Alice Munro

«Leggete tutto di Alice Munro, ma per cominciare leggete “Chi ti credi di essere?”. Sí, cominciate da quello» consiglia il buon Jonathan Franzen. E io i buoni consigli li ascolto eccome. Da parecchio tempo dovevo supplire alla mia grave mancanza, non aver mai letto nulla di Alice Munro. Dopo esser stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura 2013, da mancanza la mia è diventata una gravissima colpa, a cui dovevo assolutamente rimediare. Dopo aver letto questa frase di Franzen la scelta è stata obbligata.
“Chi ti credi di essere?” è un romanzo costituito da dieci racconti che hanno per protagoniste due donne apparentemente antitetiche: Flo e Rose. Flo è volgare, a tratti crudele, rozza, eppure ha un cuore d’oro e una generosità fuori dal normale. Rose è la sua figliastra e tenta disperatamente di essere il suo esatto contrario: ogni occasione per contraddire Flo, per farla sentire inadeguata, diventa ragione di vita. I racconti compongono una sorta di romanzo di formazione, lungo quarant’anni, seguendo le fila della vita di Rose. Essendo racconti, le storie narrate sono meri flash, brevi ma significativi estratti della sua esistenza. Prima ragazzina nel paesino canadese di West Hanratty, rozzo, crudele e volgare proprio come Flo, dove Rose cresce vittima della povertà e del rapporto di amore e odio con la matrigna, che le vede entrambe impegnate in una guerra senza esclusione di colpi per guadagnarsi i favori del padre/marito morente. Rose vive un’adolescenza in fuga dal suo squallido mondo: attraverso lo studio, i romanzi, il sogno di diventare attrice, tenta di prendere le distanze dalle sue origini. Con i suoi sforzi riesce ad ottenere una borsa di studio per l’università e così a fuggire lontano dalla provincia ignorante per approdare in città, in un mondo dove i suoi racconti su West Hanratty vengono scambiati per macabre e surreali favole. Ma anche lontano chilometri dal mondo in cui è cresciuta, la domanda che spesso Flo le ha posto con disprezzo “Chi ti credi di essere?”, la perseguita come un anatema. Cosa è davvero Rose? Cosa vuole diventare? In una ricerca continua di se stessa, la ragazzina diventa donna ma continua a fuggire per un Canada perennemente innevato, con lo scopo di scappare dai demoni che ha dentro di sé. Ad ogni problema, ad ogni complicazione il fragile io di Rose si incrina. Sempre in ansia a causa dei giudizi altrui, si dà alla fuga non appena qualcosa rischia di ferirla. Finché non sarà costretta a tornare a West Hanratty, per capire che in fondo quello è il mondo di cui fa davvero parte.
Un grandissimo romanzo, una narrazione straordinaria e un Canada come non lo immaginavo. Ora posso assolutamente capire l'Accademia Svedese e la sua scelta. Alice Munro sa descrivere una serie di personaggi davvero unici: uomini e donne colti nei loro momenti più bui, sono creature inermi e impotenti di fronte alla loro fragilità e ai loro difetti. Una scrittrice davvero strepitosa, che nel brevissimo spazio di un racconto  riesce a dipingere con delicatezza e precisione un'intera esistenza. 

giovedì 31 ottobre 2013

"Middlemarch", George Eliot

I classici corposi sono la mia passione per gli stessi motivi per cui il lettore medio di solito li snobba. Le mille e più pagine non mi spaventano, anzi sono un buon modo per affezionarsi ai personaggi e scoprire tutto di loro, il linguaggio pomposo e un po’ affettato dell’Ottocento mi affascina (vorrei poter usare ogni giorno parole come “redingote” o “cretonne”), le infinite digressioni sugli usi e costumi di un’epoca (pur ammettendone la pesantezza, sono pur sempre umana!) mi interessano moltissimo. “Middlemarch” è l’impresa del 2013. Si tratta di un romanzo in Italia forse poco conosciuto. George Eliot lo scrisse a partire dal 1869 e lo pubblicò dapprima a puntate (tra il 1871 e il 1872), vista la sua mole considerevole, e poi come opera unitaria nel 1874. La vicenda è piuttosto complessa. Si svolge nella città inventata di Middlemarch, nel cuore dell’Inghilterra rurale delle Midlands, tra il 1830 e il 1832, prima della riforma elettorale e dello scoppio della rivoluzione industriale. Tra i numerosi protagonisti, un ruolo centrale è affidato a Dorothea Brooke, una giovane donna benestante, piena di talento e di moralità. A essa sono dedicati sia il breve preludio che la conclusione dell’opera, in cui viene paragonata all’indomita Santa Teresa d’Avila. Dorothea contrae un avventato matrimonio con un anziano e malato studioso, Mr. Casaubon, attratta dall’istruzione e dal sapere che spera egli le infonderà, e dall’ammirazione per l’opera che egli sta scrivendo da anni e a cui essa spera di partecipare in qualche modo. Ben presto si renderà conto non solo dell’infondatezza delle proprie speranze, ma anche dell’assoluta indifferenza del marito e, desiderosa di amore e affetto, verrà invece attratta dal di lui cugino, Will Ladislaw, un giovane idealista e vagabondo, alla ricerca di se stesso. Tra i due nasce una bella amicizia che potrebbe diventare amore alla scomparsa di Casaubon, ma questi, straziato dalla gelosia, inserisce nel proprio testamento una postilla che rende impossibile l’unione tra Dorothea e Will. Ma Middlemarch è popolata anche da altri personaggi, di varia estrazione sociale, i cui destini si intrecciano con quello di Dorothea: i Vinchy sono ricchi borghesi, molto goderecci e modaioli. La bellissima figlia Rosamond sposa un medico, Mr. Lydgate, per salire nella scala sociale, pur non amandolo; il figlio Fred invece spera di arricchirsi ereditando denaro e non sa quello che vuole fare della propria vita. Ci sono poi i buoni Garth, strenui lavoratori sempre alle prese con problemi economici, il parroco Mr Fearbrother, che mantiene la madre e le zie e per arrivare a fine mese gioca per soldi a carte. Middlemarch è insomma un universo composito e ricco, pieno di umanità e vizi, di brava gente e di figure losche. Dietro le vite impeccabili dei suoi cittadini si nascondono i peggiori peccati, anche quando questi sono certi di agire in piena buona fede e secondo le ipocrite regole dell’Inghilterra rurale.
Il romanzo porta il sottotitolo “Uno studio di vita provinciale” ed in gran parte è proprio questo. La Eliot interviene spesso in modo diretto nella narrazione, commentando le gesta dei protagonisti, come se fosse un’insegnante che commenta una lezione. Anche il linguaggio esprime questo spirito educativo e contribuisce a rendere l’opera particolarmente realista (se si escludono i personaggi buffi di Mr. Brooke e della piccola Miss Noble). I temi che vengono trattati, e che sono imprescindibili dall’intreccio, sono la morale, la religione, la scalata sociale e l’ipocrisia delle convenzioni borghesi, l’avvento della tecnologia in una società rurale, le riforme politiche, il ruolo della donna e come esso si evolve con il matrimonio. Specialmente su questo punto Eliot insiste parecchio. Dorothea è una donna molto moderna (se escludiamo la sua religiosità estrema), che anela a emanciparsi, a crescere e a prendere in mano il proprio destino, specialmente dopo aver sperimentato l’opprimente condizione di moglie di Mr. Casaubon. Eppure proprio sul finale qualcosa sembra andare storto perché Dorothea sacrificherà di nuovo le proprie ambizioni per amore. Questa è una delle critiche che più spesso vengono mosse al romanzo, ma dobbiamo pur sempre ricordare che si tratta di un’opera di fine ‘800, e personalmente l’ho trovata estremamente moderna e diversa rispetto ai soliti romanzi dell’epoca. La mia impressione è stata che laddove finiscono le grandi storie d’amore delle sorelle Brönte o di Jane Austen, lì comincia “Middlemarch”, svelandoci cosa si nasconde dentro i bei palazzi dei ricchi, dentro i cottage decadenti dei poveri, e soprattutto cosa accade alle nostre eroine una volta che si ritrovano con la fede al dito e costrette a fare figli e a rinunciare alle loro esistenze come donne, per diventare “mogli”.
Uno splendido romanzo inglese, pieno di pizzi e tazze di the, lacrime e amori cavallereschi, seppure ben più realistico e meno idilliaco di quanto di certo avete letto fino ad ora e di quanto mi aspettavo. Come tutti i “libroni” va affrontato con pazienza: se si resiste alle prime 100-150 pagine senza abbandonarlo, poi non lo si può più lasciare.

mercoledì 23 ottobre 2013

"La pioggia prima che cada", Jonathan Coe


“La pioggia prima che cada” è un romanzo del 2007 di Jonathan Coe. Non avevo mai letto nulla di questo scrittore nonostante le insistenze di una mia carissima amica che lo ama molto. Ora che vivo a 40 km da Birmingham, nelle sue Midlands, non potevo proprio più tergiversare. E così mi sono lanciata in questa lettura davvero molto piacevole e scorrevole.
Alla morte della sua anziana zia Rosamond, Jill si ritrova col gravoso compito di rintracciare una misteriosa donna a cui la zia era legatissima, Imogen, e consegnarle, oltre alla sua parte di eredità, anche un misterioso pacco con sei audiocassette all’interno. La missione purtroppo si rivela più complicata del previsto, Imogen sembra essere scomparsa nel nulla e pochissime tracce della sua esistenza sono rimaste. Dopo mesi di sconfortanti ricerche, Jill e le sue figlie, Catherine ed Elizabeth, decidono di ascoltare i nastri lasciati da Rosamond: si tratta della minuziosa descrizione di venti fotografie che Rosamond usa come espediente per narrare a Imogen la sua storia e quella della sua cara amica e cugina Beatrix. Jill e le sue figlie si ritroveranno ben presto perse in un racconto che attraversa mezzo secolo, passando da Birmingham allo Shropshire e arrivando a Londra, per poi fuggire lontano, in Canada, e le cui protagoniste assolute sono tutte donne: Rosamond, Beatrix, Rebecca, Ivy, Thea, Ruth, per arrivare alla piccola, innocente e sfortunata Imogen. Si renderanno ben presto conto dei segreti e dei misteri racchiusi in questa storia complicata e triste, fatta di una serie di tragedie concatenate di cui Rosamond, con la disperazione delle sue ultime ore di vita, cerca di trovare un senso, anche se mai una giustificazione. Tra le sue parole si capta la necessità di scorgere, tra le spirali dei destini, un nesso, un filo logico, un perché a cui aggrapparsi per dare significato al tutto. Il mondo descritto da Rosamond è un mondo di donne forti ma allo stesso tempo drammaticamente fragili, donne in cerca di amore, che sembra sempre soluzione alla loro fragilità ma che eppure resta sempre una chimera irraggiungibile, qualcosa di irreale, come la pioggia prima che cada appunto.
Essendo il primo romanzo di Coe che leggo non ho molti metri di paragone. Posso dire che mi ha davvero rapita, l’ho divorato e l’ho amato moltissimo, anche se dal punto di vista emotivo mi ha commossa fino alle lacrime. Le figure femminili che Coe ci racconta sono crudeli, allo stesso tempo vittime e carnefici, ma tristemente vere. Ognuno di noi in esse può trovare una parte di se stesso, vedere, come riflesse in uno specchio, le proprie fragilità e le proprie meschinità. Il motore di tutto l’universo che ci viene descritto è la ricerca dell’amore (e non solo quello passionale), o la sua assenza, e questo rende ancora più semplice il processo di immedesimazione. Si divorano le pagine di questo romanzo sperando che il cerchio dei destini si spezzi e che la catena di dolore si interrompa in qualche modo, ma proprio come nella vita reale, non sempre le storie finiscono con un “E vissero per sempre felici e contenti”. Assolutamente consigliato.

lunedì 14 ottobre 2013

"La Prosivendola", Daniel Pennac


In attesa del film tratto da “Il paradiso degli orchi” (che purtroppo a quanto pare in Inghilterra non verrà distribuito), la Lettura Precaria di oggi è il terzo capitolo della saga della stramba famiglia Malaussène. Dopo aver aiutato a risolvere il caso degli anziani tossicodipendenti di Parigi, di cui inizialmente era stato accusato ne “La fata carabina” (vedi recensione), Benjamin Malaussène torna alla sua vita di sempre in compagnia della sua strana famiglia di orfani, alla sua amata Julie e ai due nuovi arrivati, l’ispettore Van Thian e la piccola e iraconda Verdun, nata da poco e subito abbandonata dalla mamma Malaussène, fuggita a Venezia col suo nuovo amore, il commissario di polizia Pastor. Benjamin però ha un nuovo cruccio, oltre a quello di essere il Capro Espiatorio delle Edizioni del Taglione: Clara, la sua adorata sorella minore, ha conosciuto un uomo e lo sta per sposare, contro la sua volontà. Il suo nome è Clarence (“Clara e Clarence… m’immagino la faccia della regina Zabo se avesse trovato una cosa del genere in un manoscritto! Clara e Clarence! Nemmeno la serie Harmony avrebbe il coraggio di inventarsi una perla simile.”) Sant’Inverno, ha quasi sessant’anni ed è il direttore di un carcere modello parigino. Qui egli porta avanti idee rivoluzionarie sulla detenzione dei criminali, che considera creatori che non hanno trovato un’occupazione, e li indirizza verso le arti. C’è chi dipinge, chi recita, chi scrive e chi suona i più svariati strumenti musicali. Tutto sembra perfetto, meraviglioso e paradisiaco, finché, la notte prima del matrimonio, Sant’Inverno non viene brutalmente trucidato. La famiglia Malaussène è di nuovo implicata in una torva storia di violenza ma questa volta, invece di gettarvisi a capofitto nel tentativo di risolvere il caso, Benjamin e i suoi fratelli decidono, su consiglio del commissario Rabdomant che ormai ne conosce la capacità di ficcarsi nei guai, di dedicarsi a tutt’altra attività: la Regina Zabo infatti chiede a Benjamin di interpretare un famosissimo scrittore, che ha venduto milioni di copie di romanzi molto commerciali, e per questo disprezzati da Benjamin ma adorati dalle sue sorelle. Il vero scrittore d’oro, in realtà un famoso ministro, e vuole rimanere anonimo, protetto dallo pseudonimo J.L.B. e dal volto di Benjamin. L’impresa, che sembra umiliante e svilente come tutti gli incarichi di Capro Espiatorio al Taglione ma parecchio remunerativa, dovrebbe essere uno scherzo per Benjamin, ma ovviamente, quando di mezzo c’è la famiglia Malaussène, nulla è come sembra e i colpi di scena sono dietro l’angolo.
C’è ben poco da dire su questo romanzo sennonché si tratta dell’ennesima bella prova dell’ottimo Pennac, che con la sua ironia e fantasia ci dipinge una famiglia che è tanto splendida e semplice da risultare surreale. Mentre Parigi sembra un Far West di sparatorie, violenza, criminalità e menzogne, il candore estremo e la bontà dei Malaussène sono un faro nella notte, e rappresentano una speranza palpitante e contagiosa. Una serie di romanzi che inevitabilmente ha segnato la storia della letteratura contemporanea e che resta nei cuori dei suoi lettori.