giovedì 13 settembre 2012

"Hope, a tragedy", Shalom Auslander


Solomon Kugel è un borghese ebraico di New York che decide di fuggire dalla caotica e pericolosa città con moglie, figlioletto e madre in fin di vita, alla volta di uno sperduto villaggio lontano da tutto, da tutti e soprattutto privo di alcun legame con la Storia. Ma nella fattoria che acquista ben presto dovrà fare i conti con una inquilina inaspettata e quantomeno ingombrante: Anna Frank. La donna si nasconde nell’attico della fattoria da decine di anni lavorando al suo nuovo romanzo. La reazione di Kugel è di indignazione: come può quella vecchia pazza asserire di essere il simbolo dell’Olocausto, una fanciulla morta ad Auschwitz? La risposta di Anna non si fa attendere ed è emblematica dello stile irriverente e ironico di Auslander: “Era Bergen-Belsen, idiota.”.
Kugel deve far fronte non solo ai propri sensi di colpa (come si può pensare di denunciare alla polizia Anna Frank? Soprattutto se si è ebrei?), ma anche ad una madre da sempre ossessionata da un Olocausto che è convinta di aver vissuto, pur essendo nata a Brooklyn nel ’45.
Il protagonista deve scontrarsi lungo tutto il libro anche con il pensiero del proprio analista, il dottor Jove, e testare la sua teoria. Secondo lo psichiatra l'ottimismo è un'illusione, che nessun le galline attraversano la strada nella speranza di trovarvi un mondo migliore, ma inesorabilmente ciò che incontrano sono solo le ruote di un camion (da qui il meraviglioso titolo originale dell’opera, a mio parere tradotto in modo poco azzeccato nella versione italiana, “Prove per un incendio”). Kugel verifica questa filosofia e torna spesso su una fotografia di Bergen-Belsen in cui sono raffigurati prigionieri nelle loro cuccette. In un angolo c’è un uomo, emaciato, nudo, scheletrico, ma con un sorriso sul volto. C'è speranza in quel sorriso? Che cosa sperare? Vivere o morire? Questo vortice di ossessioni e pesi storici porteranno ad un catastrofico rovinare della vita della famiglia Kugel combattuta tra il proprio bene e le responsabilità della Storia e della propria cultura.
Lo stile irriverente e giocoso di Auslander in realtà maschera alcune serie domande che l’autore si pone riguardo alla comunità ebraica e non solo: è meglio avere una Anna Frank morta o una viva che vuole raccontare la propria storia dopo i campi di concentramento? Qualcuno vuole davvero leggere questa storia? E soprattutto Auslander si interroga sul concetto di memoria: siamo davvero sicuri che la Memoria delle brutalità non faccia nascere in noi risentimento e sete di vendetta che ci spingono a ripetere gli stessi errori? Non sarebbe meglio dimenticare tutto e ripartire da zero ogni volta? Non aspettatevi un libro pio, moralista o politically correct, ma leggetelo: lo stile di Auslander è certamente unico e imperdibile.

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